Quando i passanti mi guardano, una ragazza di 33 anni che cammina zoppicando marcatamente e con la mano sinistra in tasca e la gamba tesa, pensano subito diverse cose: la primissima è un incidente stradale, la seconda è una gamba rotta o steccata, la terza ha la sciatica e così via…
Ma niente di tutto questo. Mi è capitato qualcosa di diverso, di molto diverso, che stravolge un po’ tutti gli standard che si leggono in medicina: in un pomeriggio di settembre del 2004, mi è venuto un ictus, ischemia o trombosi che dir si voglia. In particolare ho avuto un’otturazione della carotide destra, quella che porta a cervello.
Il clichè a cui si rifanno tutti è che gli ictus si verificano in persone anziane, ultrasessantenni, per la maggior parte uomini (ma c’è anche qualche donna) e fumatori accaniti. E invece vi sono anche tantissime donne, giovani, genovesi anche, mie coetanee (che ho avuto occasione di conoscere nelle sedute di fisioterapia). Un numero incredibilmente molto alto.
Ma per le ragazze che erano state colpite da ictus c’è sicuro un motivo, che generalmente i medici in ospedale trovano: o globuli rossi troppo alti nel sangue, che alla lunga, senza controlli né prelievi, hanno causato l’ictus (ad esempio stress), o valori anomali. I medici, nel mio caso, non mi hanno trovato niente, ma niente, e dubito che ne troveranno la causa.
Io stavo benissimo, ero perfettamente sana e in forma, riposata e divertita anche, poiché ero appena tornata dalle ferie in barca a vela in Grecia, alle Sporadi, ed era stata una vacanza meravigliosa, piena di mare e fondali e venti e meltemi.
Ero felicissima perché tempo prima ero stata selezionata tra i membri della diciassettesima spedizione italiana a Baia Terra Nova, in Antartide: infatti, sono (o meglio ero) microbiologa all’Università di Genova, mi era stata offerta questa occasione unica. Avevo fatto tutto, compresi i controlli a Milano nel caldissimo luglio, presso l’ospedale della Marina Militare, ed ero pronta per fare 2 settimane di addestramento obbligatorio per i novizi della spedizione. Sarei dovuta partire dall’Italia: prima Nuova Zelanda e poi Mare di Ross, e stare lì 2 mesi, da ottobre a dicembre 2004. Il mio ruolo era quello di uscire con i colleghi microbiologi a raccogliere carote di ghiaccio, per campionare i batteri che stavano attaccati sotto (tipo lago), poiché nessuno aveva ancora studiato questo particolare tipo di microrganismi.
Sono partita per l’addestramento: prima una settimana sul lago Brasiamone, vicino a Bologna, sede del Centro ENEA, dove mi sono divertita un sacco: mi facevano fare montaggio tende, giri in elicottero, passaggi in tunnel montati ad hoc (io che sono claustrofobica, uno sballo!). In più c’erano le passeggiatine serali, e la buona cucina in albergo.
Poi la seconda settimana più hard: trasferimento a La Thuile, a 1400 metri di altezza, in Val d’Aosta, e poi sul lago Verney a 2000 metri, vicino al passo per andare in Svizzera, dove, insieme alle guide, ci saremmo accampati una settimana in tenda, a fare trekking, escursioni, e arrampicate, lontani da tutto e tutti, simulando il fatto che eravamo al Polo Sud e non c’erano cellulari.
La mattina del 6 settembre siamo saliti sul bus che ci portava al lago, con militari e guide, e il patatrac si stava avvicinando. A bordo ho iniziato a sentirmi male, mi girava la testa, avevo mal di testa. Alla fine siamo scesi dal bus alla destinazione, ho fatto un bel respiro e ho detto: “sto meglio”. Ho preso lo zaino su uno spallaccio e la testa ha cominciato a girarmi, ho intravisto il lago Verney da lontano e sono svenuta. Era l’ultima volta che mi sedevo su quel sasso con le mie gambe.
I soccorsi in elicottero sono arrivati, mi hanno portato all’Ospedale di Aosta, dove non sapevano cosa avessi. Prima hanno detto che era un tumore al cervello: analisi negative. Poi un aneurisma: analisi negative Alla fine una dottoressa, che non cesserò mai di ringraziare, ha immaginato fosse un ictus e ha osato agire in quella direzione: era davvero ictus e mi sono salvata.
Purtroppo le lunghe ore, più o meno 6, senza ossigeno al cervello mi hanno procurato danni cerebrali e motori gravi (emiplegia, ho gamba e braccio sinistro paralizzati), sono stata più di un mesetto in coma e i miei genitori, sconvolti, hanno rischiato di perdermi. Ma a quanto pare c’era qualcuno lassù. Oppure io, con la mia tracheo e tubi e tubicini, ero veramente attaccata alla vita e sono sopravvissuta. Sono stata a lungo in ospedale a Torino, 6 mesi, e poi a Genova, in carrozzina.
Ora siamo nel 2008, la sedia a rotelle è in garage, mezza sepolta tra 1000 cose inutili, cammino col bastone a tracolla, ma quando ho difficoltà non esito a usarlo, non vado più in auto né in motorino (è anche lui in garage che prende polvere). Non sono ovviamente più andata al Polo Sud (pensare che, se effettivamente fossi partita e mi fossi sentita male, l’aereo non sarebbe riuscito a riportarmi indietro in ospedale in Nuova Zelanda, perché il tragitto minimo è di 7-8 ore, e sarei morta. Questo pensiero mi fa ridere e rabbrividire...
Ora vado a ginnastica tutti giorni, e ci andrò ancora per un pezzo. Sono diventata abilissima con la destra, al punto da trascurare anche la sinistra negli esercizi, ma trovo anche i miei punti di forza: le persone mi stimano un po’ quando dico dell’ictus e mi considerano – comunque- in gamba, meglio di tante altre persone! Ciò non toglie che, ogni tanto, quando sono giù, mi dico che la mia sfiga è stata veramente colossale!
Ilaria Gallizia
6 settembre 2008
domenica 14 settembre 2008
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